«Io
un’idea sulle trivelle non me la sono ancora fatta, ma forse perché a qualcuno
conviene così. Provate a chiedere qui, tra le persone che sono al mercato, vi
risponderanno tutti come me». Gianni vende vestiti in un
mercato di Roma, quello di piazza Vimercati, e il 17 aprile come tutti gli
italiani è chiamato ad esprimere una netta presa di posizione: «Volete che,
quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle
acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?». Nella stessa
situazione si trovano anche tante altre persone, che abbiamo intervistato
proprio al mercato seguendo il suggerimento di Gianni e che potete vedere nel
video qui inserito: aveva ragione, la maggior parte di loro è poco informata,
accusa i media di manipolazione, si basa sul “sentito dire” o peggio ancora,
non sa neanche cos’è il referendum sulle trivelle.
Eppure il voto è alle porte, meno di un mese e l’Italia si troverà
a decidere su un tema importante attraverso uno dei pochi strumenti di
“democrazia diretta” che ha a disposizione. Il Parlamento si è già espresso su
questa tematica: le società petrolifere non potranno più richiedere per il
futuro nuove concessioni per estrarre petrolio e gas in mare entro le 12 miglia,
ma le concessioni già ottenute rimarranno senza limiti di tempo. Dunque chi
vuole - in prospettiva -eliminare le
trivelle dai mari italiani deve votare sì, chi vuole che le trivelle restino
senza una scadenza deve votare no. Per abrogare la norma è necessario che
barrino la casella con il “sì” il 50% + 1, in caso contrario o se non venisse
raggiunto il quorum, tutto rimarrebbe così come previsto dalla legge.
Il referendum è stato voluto da 9 regioni (Basilicata,
Calabria, Campania, Marche, Molise, Liguria, Puglia, Veneto e Sardegna),
preoccupate per le conseguenze delle estrazioni sul turismo e sull’ambiente. Per
la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana un referendum non arriva
su proposta del popolo (le famose 500 mila firme raccolte), ma bensì da istituzioni
locali: ne bastavano 5, ne sono arrivate 9. E c’è varietà di schieramenti
politici: il leghista Zaia (presidente del Veneto) ed il forzista Toti
(Liguria), rappresentano la destra, mentre le altre 7 regioni sono governate da
giunte del Pd. Ma nonostante la maggioranza, c’è spaccatura anche all’interno
della sinistra: il governatore della Puglia Emiliano ad esempio è tra i più
attivi per favorire il “sì”, il sindaco di Bari (capoluogo della regione)
Antonio Decaro, anch’esso democratico di sinistra, ha invece chiaramente
espresso la sua volontà di votare scheda bianca. Per il premier Renzi si tratta
di un referendum “inutile”, che costa 300 milioni alle casse pubbliche.
Da una parte c'è il Comitato “Vota sì per fermare le trivelle”, a cui hanno aderito oltre 160 associazioni,
ambientaliste e dei consumatori. Dall'altra il gruppo dal nome "Ottimisti
e razionali" che comprende
nuclearisti, compagnie petrolifiche ed energetiche. Secondo i calcoli di
Legambiente (a favore del “sì”) le piattaforme soggette a referendum coprono
meno dell'1% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% di quello di gas, ma i
due terzi delle piattaforme ha sedimenti con un inquinamento oltre i limiti
fissati dalle norme comunitarie. Tradotto: l’estrazione è poco utile e molto
dannosa. I fautori del “no” però la pensano diversamente: l'estrazione di gas e
petrolio è attività sicura e viene costantemente controllata dalle autorità
come l'Ispra,l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca
ambientale, l'Istituto Nazionale di geofisica, di geologia e di oceanografia.
Il gas, spiegano gli “ottimisti e razionali” non danneggia l'ambiente e le piattaforme
permetterebbero 10 mila posti lavoro, portandoci a 4,5 miliardi all’anno di
risparmio sulla bolletta energetica.
Per chi voterà “sì” i miglioramenti nella
nostra economia causati dalle estrazioni sono invece una grande bugia: dopo il
rilascio della concessione, il petrolio diventa proprietà di chi lo estrae non
portando nessun beneficio nelle tasche degli italiani. Per le attività in mare,
spiega il Comitato per il “sì”, una società petrolifera versa all’Italia solo il
7% del valore del petrolio e il 10% di quello del gas, con sgravi fiscali
notevoli. Coi numeri però si può giocare, ed ecco l’altra faccia della medaglia,
quella sposata dai “no”, anch’essa corretta: in totale sono comunque 800
milioni di tasse, 400 di royalties e concessioni. Meglio di niente.
E il turismo? Chi voterà “sì” spiega che le
trivelle mettono a rischio quella che è la vera ricchezza del Paese, con il
rischio di incidenti e disastri ambientali dietro l’angolo. Quasi 3 milioni di
persone lavorano grazie al turismo, per un fatturato di 160 miliardi di euro,
ma anche pesca e patrimonio culturale potrebbero subire danni, mandando sul
lastrico rispettivamente 350.000 persone e 1 milione e 400.000 persone. L'attività
estrattiva del gas metano – controbattono invece gli “ottimisti e razionali” –
non danneggia in alcun modo il turismo e le altre attività. Il dato che lo
dimostrerebbe è il 50% del gas che viene estratto attualmente dalle piattaforme
che si trovano nell'alto Adriatico: nessuna delle numerose località balneari sulla
costa ha avuto mai problemi.
Il vero quesito però sembra essere quello che chiede ai
cittadini una vera presa di posizione sull’utilizzo dei combustibili fossili
nel nostro Paese. Votare sì, oltre ad abrogare la singola norma, aprirebbe a
nuovi scenari culturali, comunicando una risposta ben precisa: gli italiani
chiedono alla propria classe dirigente di smetterla con il petrolio e di investire
sulle rinnovabili. Un’utopia per chi crede nell’indispensabilità dei
combustibili e nel fatto che l’Italia non può ancora sostenersi solo ed
esclusivamente con energie alternative. Una consapevolezza comune però c’è: il
petrolio da solo non basta più e le “energie pulite” sono il futuro di un mondo
che cerca una svolta su un tema di vitale importanza come il rispetto
dell’ambiente. Per non rendere inutile la Cop 21 di Parigi e per dare un futuro
migliore ai nostri figli.